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Una storia tutta da scoprire

Il mio incontro con Palazzo Tiepolo risale quasi a una decina di anni fa. A farmelo conoscere da vicino è stato un mio grande amico, Giancarlo Bettarel. Molti a Vazzola lo conoscono e lo stimano perché il professor Bettarel ha insegnato matematica e scienze per oltre vent’anni nella locale Scuola Media, formando più generazioni di studenti e facendo innamorare delle materie scientifiche molti ragazzi.

Gli interessi personali del professor Bettarel non si fermano, però, alla sola area scientifica. Instancabile lettore e viaggiatore, curiosissimo di letteratura ed arte, una decina di anni fa mi invitò a Vazzola e mi propose di insegnare agli allievi della sua scuola come scoprire, giocando, i segreti dei dipinti del Fumiani, del Beccaruzzi e di Francesco Da Milano che ornano la bella chiesa arcipretale di San Giovanni Battista. Accettai con piacere l’invito e, facendo un primo sopralluogo per decidere le strategie didattiche da adottare con i nuovi critici d’arte in erba, incuriosito dal professor Bettarel ampliai il mio giro di ispezione al vicino Municipio, che non avevo mai prima di allora avuto modo di visitare. 
A sorpresa mi trovai improvvisamente dentro un “interno veneziano” tanto più straordinario quanto più inaspettato. Soffitti a travature, stucchi con vasi e cesti ricolmi di rose, ninfe affacciate tra foglie d’acanto e fiori, affreschi con le straordinarie vicende degli dei e degli eroi antichi: il Canal Grande aveva traslocato a Vazzola! Il professor Bettarel, che mi conosce bene, sorrideva soddisfatto, sicuro di aver colto nel segno e intanto mi andava spiegando che su questo così nobile edificio in pratica non si sapeva quasi niente perché nessuno aveva mai svolto ricerche approfondite. Di scritto esistevano in pratica solo i brevi cenni delle Ville venete di Giuseppe Mazzotti del 1954 e una relazione del Tiozzo che aveva restaurato gli affreschi tra il 1979 e il 1980, nulla di più.
Il discorso finì lì, ma nei mesi e negli anni successivi continuai a far “giocare” con l’arte gli allievi di Vazzola e presi anche l’abitudine di condurre in paese vari gruppi di studio per stupirli a mia volta con i dipinti della chiesa arcipretale (don Daimo ci dava ogni volta gentilmente ospitalità) e con le meraviglie di Palazzo Tiepolo. Fu nel corso di queste visite che il Vicesindaco Giuseppe Sacconi e l’Assessore alla Cultura Andrea De Vido mi proposero di scrivere qualcosa sul palazzo, per cercare finalmente di svelarne il mistero e la storia.
Le difficoltà che la ricerca avrebbe comportato, anziché scoraggiarmi, mi spinsero ad accettare la proposta ed ora che il mio lavoro volge al termine mi accorgo che la storia del palazzo, pur condensata necessariamente in un testo breve ed agile, è diventata anche la storia delle famiglie e delle istituzioni che lo hanno posseduto nei secoli, e non solo. La storia stessa di Venezia e delle fertili campagne di Vazzola è entrata in gioco, essendo difficile se non impossibile comprendere le plurisecolari vicende del palazzo senza tener conto della storia della Serenissima e di quella paesana.
Devo però confessare che non tutta la nebbia che avvolgeva i tre lunghi secoli di Palazzo Tiepolo è stata diradata. C’è ancora qualche zona d’ombra che i documenti d’archivio fin qui ritrovati non hanno consentito di illuminare pienamente, ma mi consola l’idea di lasciare in questo modo ancora aperta la porta al piacere di scoperte che portino in futuro nuova luce.
Di storie ne sono comunque riemerse tante, e mi sono trovato quasi in difficoltà quando si è trattato di scegliere quali di queste far comparire nel libro e quali tacere, quali raccontare per esteso e quali riassumere brevemente. Tutto era interessante, talmente interessante da poter diventare quasi materia di narrazioni da romanzo. Come la ricchezza di Vazzola, che nel primo Seicento faceva registrare il più alto reddito medio pro capite di tutta la podesteria di Conegliano grazie alle sue molte terre comunali. Ne godeva tutta la comunità che vi pascolava gli animali e, tra il giorno di San Giorgio e quello di San Michele, vi falciava l’erba per farne il foraggio col quale nutrire il bestiame nei lunghi mesi invernali. 
L’assegnazione delle terre comunali ai singoli seguiva regole ferree stabilite da una tradizione secolare. Erano gelosamente conservate nella pieve di San Giovanni Battista in una cassetta con due serrature. A tenerne le chiavi erano il pievano (che ne custodiva una) e il meriga, una specie di sindaco, che ne custodiva l’altra: la prudenza non è mai abbastanza! Venezia ad un certo punto mise però all’asta in più settime le terre comunali per far fronte alle ingenti spese delle guerre contro i Turchi e a comperarle furono soprattutto i patrizi veneziani, che disponevano di grandi capitali liquidi. 
Fu così che Almorò Tiepolo, potente procuratore di san Marco, a partire dal 1650 divenne possidente terriero anche a Vazzola. Interessandomi di questo illustre procuratore, mi sono imbattuto in una vicenda carica di suspense: un codicillo segreto che Almorò nel 1656 aveva allegato al suo testamento (che con qualche peripezia ho ritrovato nell’Archivio di Stato di Venezia) con la tassativa disposizione che venisse aperto solo nel caso in cui la sua famiglia fosse rimasta un giorno senza eredi maschi. Almorò non se lo sarebbe aspettato, lui che aveva avuto dalla amatissima moglie Soffietta Priuli ben sette figli tra femmine e maschi, ma il suo unico maschio sopravvissuto, Zuan Domego, non ebbe prole e il codicillo nel 1730 dovette essere aperto.
Zuan Domego è un personaggio-chiave della nostra storia perché quasi sicuramente fu proprio lui a far costruire il palazzo di Vazzola. Uomo coltissimo e coraggioso, aveva combattuto contro i Turchi e aveva ricoperto per la Serenissima Repubblica altre importanti cariche. Si era sposato giovanissimo con Cecilia Sagredo, ma i figli non erano arrivati. I due sposi dovevano comunque amarsi teneramente e spesso venivano in villeggiatura nel loro palazzo di Vazzola. Non vi racconto la mia emozione quando ho finalmente decifrato le loro iniziali, dolcemente affiancate, dentro il palazzo, nell’attuale studio del Sindaco! 
Zuan Domenego morì a più di ottant’anni senza alcun figlio, né femmina né maschio, e allora venne aperto il codicillo di suo padre Almorò che affidava al Maggior Consiglio di Venezia il compito di scegliere velocemente tra i molti rami che componevano la famiglia Tiepolo un suo erede, rigorosamente maschio e con “tutte le carte” in regola. Ma anche Zuan Domenego però aveva scritto un proprio testamento. Qua la storia si fa ingarbugliata, il patrimonio Tiepolo viene spaccato in due e il palazzo con delle terre va a due Tiepolo coltissimi, Lorenzo e Ferrigo, ambasciatori, mentre altri fondi (quasi mille campi nella sola Vazzola!) finiranno di lì a poco nelle mani di un Tiepolo talmente ignorante e povero d’intelletto da venir piantato con disgusto dopo un breve periodo di matrimonio dalla moglie, una nobile Dolfin, che si consolerà presto trovandosi un nuovo marito un po’ meno rustego.
In seguito il palazzo passò a due bisnipoti di Lorenzo e Ferrigo, che decisero di venderlo ai Malanotti. 
Ritrovare nei chilometrici meandri dell’Archivio di Stato di Venezia il contratto stipulato tra i Tiepolo e i Malanotti quasi 250 anni fa non è stata impresa facile. Già avevo ripescato in alcuni documenti dell’Archivio Municipale di Conegliano e dell’Archivio Tiepolo di Venezia dei cenni sulla compravendita in questione, ma questi non bastavano a mettermi sulle tracce giuste per ritrovare il contratto. A darmi un suggerimento per fare l’ultimo tentativo (dopo mi sarei arreso) è stato l’amico Giancarlo Bardini, autore con Innocente Soligon di un bellissimo testo su Borgo Malanotte. Era il suggerimento giusto, così nell’Archivio di Venezia, con l’aiuto del dott. Antonio Esposito che mi ha accelerato la ricerca, mi è stato possibile avere finalmente tra le mani il documento tanto cercato. Un altro significativo pezzo di storia del palazzo era stato così riconquistato. 
Un’altra bella storia in cui mi sono imbattuto e che ho deciso di raccontare è stata l’idea che Pietro Antonio Malanotti, il nuovo proprietario, ebbe una decina d’anni dopo. Pietro Antonio era uomo dalle mille iniziative e progettò addirittura un acquedotto che partendo dal Favero e attraversando la contrada portasse fin dentro il cortile del palazzo l’acqua corrente per gli usi domestici. Era sicuramente un’idea di straordinaria modernità anche se forse un po’ difficoltosa, ma ne valeva la pena perché il palazzo di Vazzola era quasi una reggia.
Non si deve infatti pensare che il palazzo che i Tiepolo avevano costruito e che i Malanotti avevano comperato avesse le dimensioni attuali. L’edificio che noi oggi vediamo e che ospita la sede Municipale è solo una parte di quello che un tempo era un magnifico complesso architettonico preceduto da un viale alberato. Vi erano barchesse, portici, un grande giardino e cedrere. Il corpo centrale del palazzo (la parte più lussuosa) era addirittura il doppio di quella attuale e nei periodi della villeggiatura doveva rifulgere di luci e di musiche per le feste che i padroni davano nel grande salone da ballo, completamente ornato di stucchi ed affreschi con le storie di Apollo, Artemide e Zeus che avrebbero potuto gareggiare per bellezza con quelli dei palazzi affacciati sul Canal Grande. Questo salone, per fortuna, è in parte sopravvissuto ed è l’attuale Sala Consiliare. Il fatto che il protagonista principale del ciclo pittorico fosse Apollo, dio della luce, della poesia e della musica, è la prova che il salone era destinato principalmente al ballo e ai concerti, ma non è da escludere che i proprietari lo usassero anche come sala per i pranzi delle grandi occasioni o per le feste in genere. 
I guai per il grande palazzo, dotato come si è detto addirittura di acqua corrente, cominciarono con la fine della Serenissima Repubblica. A ridurne drasticamente le dimensioni e a far scomparire giardino, cedrere e barchesse (ne sopravvivono solo due arconi tamponati quasi nascosti tra gli edifici attuali) ci pensarono gli anni terribili di Napoleone e, in quelli successivi, una serie di calamità e di vendite. 
Con Napoleone in lotta contro gli Austriaci tutta Vazzola dovette subire requisizioni e violenze e molti furono ridotti alla fame, se non peggio, mentre il nostro magnifico palazzo venne occupato dai soldati francesi che vi si acquartierarono. Sembra impossibile, ma si “sistemarono” dentro il palazzo addirittura millecinquecento uomini con i loro animali! Questo ci dà l’idea delle dimensioni del complesso edilizio costruito dai Tiepolo, ma ci fa anche capire quanti e quali danni questi soldati laceri, sporchi, affamati abbiano arrecato all’edificio pigiandosi dentro le sue sale, sotto i porticati, nei cortili e tra le aiuole del giardino. I proprietari Malanotti ne furono talmente amareggiati che, almeno per un periodo, quasi non se ne presero più cura. 
Anni dopo il palazzo passò alla famiglia Polacco, che erano facoltosi possidenti. Avevano persino una vera carrozza e la noleggiavano a pagamento quando giungeva in visita al paese qualche personaggio illustre. In seguito nel primo Novecento l’edificio (con vari passaggi intermedi) arrivò da Pietro Polacco alla Congregazione delle Suore di Carità che vi fecero l’asilo e vi fondarono il Laboratorio di Ricamo. A chiamarle in paese era stato il parroco don Zanette e intere generazioni di cittadini di Vazzola devono la loro prima formazione religiosa e culturale proprio all’opera delle suore. Le religiose modificarono notevolmente gli interni dell’edifico e gli addossarono anche nuove costruzioni che ora non esistono più. Sono state abbattute e sostituite dagli edifici a più appartamenti, uffici e negozi affacciati su piazza Vittorio Emanuele e su via Roma, quando le suore decisero sul finire degli anni Sessanta di vendere il loro complesso. A comperare il Vecchio Palazzo (così le suore chiamavano Palazzo Tiepolo) fu invece per fortuna il Comune che salvò in questo modo il nobile edificio dalle speculazioni e dal degrado trasformandolo nella attuale Sede Municipale. 
Tornando indietro al primo Novecento, c’è da dire che Pietro Polacco prima di cederlo aveva completamente svuotato il palazzo di ogni arredo, ma in paese sono comunque ancora vive affascinanti storie di tesori nascosti che sarebbero riemersi proprio nel corso dei lavori di adattamento dell’edificio fatti ai tempi dell’asilo. Una, bellissima, dice che prima della Grande Guerra le suore, per sistemare una pompa, avevano fatto ricavare da tre operai del posto un buco nel muro perimetrale del palazzo. I tre vi avevano trovata murata una cassetta. Don Zanette, avvertito, aveva ordinato di non toccare nulla e di attendere i carabinieri, ma nottetempo la cassetta era sparita senza lasciare nessuna traccia.
Degli affreschi mitologici cui si è prima fatto cenno per fortuna invece sono rimaste almeno le tracce. Non sono tuttavia dipinti di facile attribuzione sia perché hanno perso per sempre tutte le parti terminali dell’esecuzione, che conferiscono profondità e preziosità, sia perché contengono elementi stilistici che richiamano in parte il tardo Seicento e in parte il Settecento. Non sono per ora riemersi documenti sulla loro esecuzione, per cui si è obbligati a restare nel campo delle ipotesi. Invece è stata decifrata con certezza la quasi totalità delle belle storie degli dei e degli eroi affrescati. Soltanto di tre scene, gravemente mutile, non è stato possibile formulare una lettura certa, ma ne ho comunque proposto una decifrazione verosimile basandomi su quanto è ancor oggi visibile.
Gli affreschi raccontano i miti contenuti nell’opera Metamorfosi di Ovidio, il grande autore latino che l’imperatore Augusto cacciò da Roma facendolo morire in un triste e lontano esilio nel 17 d. C.
Metamorfosi dirette o indirette di dei ed eroi: Zeus, il re degli dei, che si trasforma in aquila, toro e si improvvisa “incubatrice” per un feto di soli sei mesi; la bella Io trasformata in mucca per sfuggire alla gelosia di Era, moglie di Zeus; i cento occhi del gigante Argo trasformati negli occhi della coda dei pavoni; l’innocente cacciatore Atteone cambiato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver posato lo sguardo sulla dea Artemide; Semele resa da mortale immortale; Tizio incatenato ad una roccia per aver osato mancare di rispetto a Latona, madre di Apollo e di Artemide. E poi ancora altri racconti, a volte profondamente drammatici, come quello del giovane Fetonte che chiese ed ottenne di guidare in cielo il carro del sole e, inesperto qual era, rischiò di bruciare tutti i raccolti avvicinandosi troppo alla terra. 
Insomma, le pareti della Sala Consiliare di Vazzola sono un vero “poema” nel quale gli antichi committenti sfoggiarono la loro grande preparazione culturale e la loro ancor più grande ricchezza. Ma non sono solo questo. Credo infatti che gli affreschi volessero anche trasmettere agli ospiti del palazzo un insegnamento preciso, e cioè che l’obbedienza e la sottomissione sono necessarie e tornano alla fin fine a vantaggio sia di chi comanda sia di chi obbedisce. E a comandare erano naturalmente gli aristocratici padroni di casa, che consideravano sé stessi l’equivalente terreno degli dei celesti, abitanti felici (e fortunati) del monte Olimpo la cui vetta si perdeva tra le nubi, le stesse nubi che vediamo sul più grande affresco del ciclo (circa tre metri di altezza per sette metri di larghezza).
Se lo si guarda con attenzione, tra gli dei che si accomodano solenni in cielo mentre già avanzano gli impetuosi cavalli di Aurora, si vede in primo piano il dio Dioniso o Bacco con un bel grappolo d’uva nera in mano. Il dio discute con la moglie Arianna, preoccupato per i danni che l’inesperto Fetonte potrebbe arrecare alle vigne guidando maldestramente il carro solare.
A pensarci bene le preoccupazioni di Dioniso erano esattamente le stesse dei padroni di casa che di sicuro si inquietavano quando l’estate troppo torrida e secca metteva a repentaglio il buon esito della vendemmia autunnale. E così come Dioniso avrebbe voluto impedire o almeno interrompere la folle corsa di Fetonte, anche gli aristocratici proprietari di campi e vigne avrebbero desiderato di poter comandare “a bacchetta” persino al secco e alla pioggia, oltre che ai loro sottoposti. Dioniso riuscì nel suo intento perché l’intervento provvidenziale di Zeus fulminò in cielo Fetonte facendolo precipitare nel fiume Eridano; e nel tempo anche i proprietari terrieri riusciranno a “fulminare” almeno in parte la siccità per mezzo delle abbondanti acque di Vazzola.
Confesso ora pubblicamente che quando ammiro il grande affresco con la storia di Fetonte, mi piace immaginare che l’uva nelle mani di Dioniso sia un grappolo di quel raboso di cui molti anni più tardi lo storico Pasquotti parlerà con orgoglio nel suo libricino del 1894, raccontandoci che veniva chiamato Vino di Conegliano e che i Bellussi ne avevano esteso la coltivazione intensiva a gran parte del territorio di Vazzola. Se così pensando commettessi un errore, ne chiedo scusa (e lumi) al mio amico Bardini, profondo conoscitore della storia dei vini delle nostre terre.